Carpe Diem: Significato e Interpretazione dell'Oraziana Esortazione
Carpe diem è la più celebre massima del poeta latino Orazio (65-8 a.C.) e di tutta la poesia latina.
La storia che ha portato l’espressione “carpe diem” sino ai giorni nostri, nella nostra lingua, ma anche in molte altre, è lunga e tortuosa, ma anche molto curiosa. E sorprende quanto il concetto che esprime, così attuale, sia in realtà antichissimo. A partire da chi l’ha usata per la prima volta ne è nata una vera e propria filosofia di vita che nella società contemporanea continua ad avere successo. Anche se il modo in cui viene intesa al giorno d’oggi è piuttosto diverso rispetto al suo significato originale.
La locuzione è composta da carpe, seconda persona singolare dell’imperativo carpo (cogliere, afferrare), e diem, da dies, che significa giorno. La traduzione letterale è quindi: afferra il giorno. In realtà quella più diffusa è cogli l’attimo, che spiega in maniera più immediata il suo significato. Questa espressione, infatti, viene utilizzata per invitare qualcuno a sfruttare ogni attimo della propria vita, a viverlo pienamente e al meglio, poiché il tempo scorre e non si può tornare indietro. Bisogna cogliere al volo le occasioni che la vita ci offre, perché rischiamo di non vederle più tornare. Questo è il significato associato oggi all’espressione carpe diem.
Una curiosità? Mentre parliamo il tempo sarà già fuggito, come se ci odiasse. Afferra il giorno, credendo al futuro quanto meno puoi.
Per capire il 'carpe diem' si deve capire il verbo carpere (anche se già solo osservando il nostro cogliere potremmo annusare il vero senso poetico di questa espressione)… Carpe diem ovvero “Cogli il giorno”, o come è poi diventata “Cogli l’attimo” di Quinto Orazio Flacco è un’ode che invita a vivere l’esistenza in modo compiuto, sfruttando le occasioni che la vita sa offrire.
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Carpe diem di Orazio è una delle più belle e celebri del poeta latino e definisce il messaggio centrale della sua concezione poetica e filosofica.
I versi sono rivolti a Leuconoe, donna il cui nome, dal greco, significa “dalla bianca coscienza”, alludendo all’ingenuità del personaggio, cuor semplice che vorrebbe conoscere il futuro, una prerogativa che all’uomo non è data.
Per cogliere ciò che la vita propone non bisogna contaminarsi di false illusioni o di profondi concetti filosofici. Carpe diem è un invito immortale a non farsi troppe domande nella vita, ma cercare la bellezza in ogni sua cosa, in ogni sua sfumatura. La vita, così breve, è bella proprio perché vissuta nella sua immediatezza. La morte è qualcosa di sicuro, forse l’unica certezza che abbiamo. Perciò l’importante è saper godere di quel che “esiste”, seguire le proprie passioni, come la filosofia Epicurea insegnava (ed insegna).
Ma partiamo dall’autore di questa celebre espressione: Orazio. Ciò che rende immortale la poetica di Orazio sono i temi da lui trattati e lo stile. Egli parla dell’uomo e conosce l’uomo sin nei più segreti meandri della sua anima. Egli è in grado di creare, con uno stile semplice e raffinato, nel quale ogni parola è esattamente dove deve essere e proprio per questo brilla e si riempie di ogni sfumatura di significato, immagini eterne.
Orazio è stato definito da un grande studioso quale Alfonso Traina il poeta della cura, ovvero dell’ansia. Questo perché egli è consapevole di una delle più grandi verità che riguardano l’uomo: il tempo passa e si deve morire. Il confronto tra l’eterno ritorno di cui può godere la Natura accentua il sentimento di termine a cui, invece, è destinata la vita umana. Di fronte a ciò il messaggio che traspare dalle pagine di Orazio è estremamente attuale: ciò che importa davvero nella vita è la semplicità delle cose autentiche.
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Abbracciando una personale rielaborazione delle filosofie stoica ed epicurea Orazio è in grado di innalzare meravigliosi inni alla bellezza della vita e della giovinezza. Poiché l’uomo è moriturus, cioè destinato a morire, ciò che conta è saper carpire e dare significato fino in fondo all’istante in cui è vivo e saper godere della più bella stagione della vita, ovvero la giovinezza.
Orazio è allora il poeta che, nel tentativo instancabile di salvaguardare i suoi contemporanei da una vita superficiale e vuota, insegna a loro, ma anche a noi, che est modus in rebus, ovvero c’è un limite nelle cose, che bisogna vivere aequa mente, essendo sempre pronti ad un eventuale rovesciamento della sorte, ma senza darne la colpa a nessuno, perché il Caso non prevede alcun supervisore, nemmeno gli dèi.
Ecco il vero significato del tanto chiacchierato carpe diem, termine abusato, usato a sproposito per giustificare qualsiasi tipo di azione, soprattutto se “alla leggera”. La serenità con cui Orazio, nonostante l’angoscia esistenziale di cui sa farsi portavoce, riesce a guardare alla vita non nasce dal niente. Essa affonda le radici nella sua immensa cultura e nelle sue esperienze, che sa rielaborare in poesia. L’opera di Orazio è un classico, di quelli che non devono essere riposti su polverosi scaffali, ma che andrebbero sfogliati di giorno in giorno, accompagnando ancora oggi la crescita di un uomo che voglia dirsi davvero “saggio”.
Contesto e Interpretazione dell'Ode di Orazio
“Carpe diem”, “afferra il giorno”: in questa frase si compendia la visione della vita del poeta Orazio, vissuto all’epoca dell’imperatore Augusto, contemporaneo di Virgilio (di cui fu grande amico) e compreso in quel gruppo di artisti e poeti che fu protetto e sostenuto da Mecenate.
La frase oggi è spesso banalizzata e utilizzata in modo inappropriato nel senso di “approfitta dell’attimo fuggente, goditi la vita, non lasciarti sfuggire nessuna occasione di appagamento”, ma nel suo contesto originale non è un semplice invito a godere spensieratamente l’effimero: essa ha un valore più sfumato e sottintende un orizzonte culturale complesso. Cercheremo qui di precisarne il senso.
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Innanzitutto è opportuno collocare la frase nel suo contesto originario, un breve componimento dedicato a una donna, Leuconoe (nome chiaramente fittizio: in greco significa ‘mente candida’) e contenuto nel primo libro delle Odi (Carmina). Ne diamo una versione fedele:
«Tu non chiederti, non è lecito saperlo, quale fine abbiano riservato gli dèi a me e quale a te, o Leuconoe, e non tentare gli oroscopi babilonesi. Come sarà meglio accettare tutto ciò che verrà! Che Giove ci doni molti inverni o che ci conceda come ultimo quello che ora fiacca il mare Tirreno su opposti scogli, sii saggia (sapias), filtra i vini, e, nel breve spazio della vita, tronca una speranza lunga. Mentre stiamo parlando, il tempo invidioso sarà già trascorso: cogli il giorno, affidandoti il meno possibile al successivo». (Carmina I 11).
Il verbo carpo significa ‘afferrare, strappare’, e si usa primariamente per indicare l’atto di cogliere un fiore: viene poi usato in senso traslato in un numero elevato di contesti nel senso di ‘cogliere, non lasciarsi sfuggire’ (cogliere un ricordo, per esempio): e siccome i fiori vengono colti per assaporarne il profumo e in sostanza per provare una sensazione piacevole, il verbo si presta anche a un uso metaforico, e assume il valore di ‘provare una sensazione di benessere, di gioia’, non necessariamente momentanea: Catullo, un poeta di poco precedente a Orazio, usa l’espressione carpere aetatem nel senso di ‘trascorrere la vita’ (illic mea carpitur aetas, ‘lì si svolge la mia vita’) e Virgilio scrive mollis sub divo carpere somnos, ‘abbandonarsi a placidi sonni sotto il cielo’.
Se l’invito carpe diem costituisce la conclusione dell'ode, non si deve dimenticare né che esso è completato da una frase che richiama la precarietà umana né che il centro ideale del componimento non è qui, ma nel sapias collocato circa a metà. Il lettore che può accedere al testo originale noterà che l'invito finale è preceduto da due altri inviti: il 'non chiederti' iniziale e un invito più sfumato al centro del componimento (sapias, congiuntivo, con un’espressione quindi meno forte dell'imperativo carpe), seguito da due precisazioni: la prima riguarda il comportamento pratico e immediato (mesci i vini), la seconda una regola di vita (non coltivare speranze eccessive). Dunque: un invito negativo ('non pretendere di sapere'), un richiamo a una ripresa di coscienza ('sii saggia') e infine l'invito finale, che ha bisogno però di una spiegazione: non porre aspettative nel domani, perché il futuro non è condizionato dai tuoi desideri.
Poste queste premesse, carpe diem non è un mero invito al godimento momentaneo o (peggio) al piacere sfrenato, ma un richiamo alla valorizzazione di quanto di positivo vi può essere nell'attimo che stiamo vivendo, senza trasferire le nostre aspettative e i nostri desideri su un futuro che nessun essere umano può conoscere.
Per approfondire questa lettura, è utile fare riferimento ad altri componimenti nei quali Orazio esprime pensieri e visioni della vita analoghe. Innanzitutto il richiamo alla precarietà dell'essere umano: ogni momento positivo o felice ha in sé il germe della sua fine: vi è come un veloce precipitare verso la morte e questa sensazione incombe in ogni circostanza della vita. Il ritorno della primavera dopo i rigori dell'inverno suscita immagini confortanti e può essere motivo per rallegrarsi (Ode I 4), perché con la bella stagione si ricomincia una vita più libera all’aperto e si riprendono attività liete e gioiose: ma immediatamente alle considerazioni positive si sovrappone e si sostituisce, senza nessuna preparazione e con un brusco stacco, l'idea del rapido passare delle stagioni e del veloce avanzare della morte: "La pallida morte bussa con piede imparziale alle catapecchie dei poveri e alle torri dei re: la brevità della vita ci vieta di iniziare una speranza lunga: presto incomberà sopra di te la notte e i Mani favolosi (gli dèi degli inferi)". E ancora, in un altro componimento (II 14): "Ahimè fuggenti, Postumo, Postumo, scivolano via gli anni, e la tua religiosità non farà ritardare le rughe e la vecchiaia incombente e la morte indomabile: neppure se tu offrissi trecento tori per ogni giorno che passa a Plutone che non conosce lacrime".
Ancora più illuminante per capire il senso esatto del carpe diem la parte finale dell'Ode I 7, cha narra l'episodio di Teucro, un personaggio del mito costretto ad abbandonare la nativa isola di Salamina perché cacciato dal padre Telamone, che lo riteneva colpevole di non avere difeso a sufficienza il fratello Aiace durante l'assedio di Troia: "Teucro, fuggendo da Salamina e dal padre, si dice che abbia legato attorno alle tempie bagnate di vino una corona di pioppo, così rivolgendosi ai tristi compagni: 'Dovunque ci porterà una sorte migliore del padre, andremo, o amici e compagni: non dobbiamo perdere la speranza finché Teucro ci guida e Teucro è nostro auspice: Apollo che non mente ci ha promesso che ci sarà in una nuova terra un'altra imprecisata Salamina: o uomini forti e che spesso con me avete sopportato circostanze peggiori, ora scacciate gli affanni col vino: domani riprenderemo il mare sconfinato".
Dimenticare per un momento gli affanni: il momento di allegria è una sosta e una pausa di svago nella consapevolezza di dovere presto riprendere la fatica del viaggio, e più in generale del vivere: è lo stesso contenuto del sapias che abbiamo trovato nel carme del carpe diem: ricordati chi sei, prendi atto del tuo limite e accingiti alle nuove fatiche che il domani ti propone, continuamente richiamando la percezione della tua fragilità, pieno di speranza proprio perché sai che la tua speranza può avere solo un orizzonte molto limitato.
Si è detto che l'interpretazione corrente banalizza l'autentica idea oraziana del carpe diem. Aggiungiamo che questa banalizzazione è iniziata molto presto. Valerio Marziale, un poeta vissuto nel secolo successivo a quello di Orazio, riprende in modo evidente il motivo oraziano e scrive in uno dei suoi epigrammi (VII 47): Vive velut rapto fugitivaque gaudia carpe 'vivi come di rapina e afferra i piaceri fuggenti'. Come si vede, le parole richiamano Orazio, ma l’idea è profondamente diversa. Altrettanto diversa la lettura che se ne dà nel periodo dell'Umanesimo: Chi vuol esser lieto sia, di doman non v'è certezza e Cogli la rosa, o ninfa, or ch’è ’l bel tempo, come scrive quel curioso miscuglio di misticismo cristiano e di paganesimo gaudente che fu Lorenzo de' Medici.
Una ripresa e un'attualizzazione ben più profonda del carpe diem oraziano fu fatta da Benedetto XVI in uno degli ultimi discorsi prima della sua abdicazione: nel corso dell'Angelus del 27 gennaio 2013 il Papa emerito ricordava che il senso cristiano del carpe diem sta nel cogliere l’oggi come momento determinante per seguire Cristo. Ogni brano del Vangelo e ogni liturgia della parola interpella il cristiano sempre nell’oggi.
Oggi associamo il carpe diem all’immagine di un uomo che, rescisso il legame con il mistero, con Dio, con la tradizione passata e con una prospettiva futura, può finalmente vantarsi di essere libero di assaporare tutti i piaceri, di andare oltre ogni limite, di esagerare senza dover più rendere conto a nessuno. «Carpe diem» è espressione che tutti conoscono, amanti o meno del latino, esperti o meno della cultura classica. Oggi associamo il carpe diem all’immagine di un uomo che, rescisso il legame con il mistero, con Dio, con la tradizione passata e con una prospettiva futura, può finalmente vantarsi di essere libero di assaporare tutti i piaceri, di andare oltre ogni limite, di esagerare senza dover più rendere conto a nessuno.
L’espressione sottolinea ancora una libertà totale, exlege, intesa come autonomia da rapporti e da impegni, spensieratezza dimentica del tempo e di una prospettiva, scevra del destino e di un compimento. Vivi l’istante per l’istante senza alcun legame con il bene, con la verità, con la saggezza.
A parlare è Orazio rivolgendosi a Leuconoë, ragazza probabilmente non reale, ma fittizia, il cui nome significa «dalla mente candida», colei che non conosce ancora la vita, che è ancora spensierata. È inutile pertanto consultare gli astrologi caldei che cercano di comprendere il destino degli uomini attraverso la posizione delle stelle. Molti romani appartenenti alla classe dirigente si rivolgono a loro. È preferibile sopportare con forza, non passivamente, tutto quanto accadrà. Questo indica qui il verbo latino «pati», una rassegnazione saggia di stampo epicureo, dovuta al fatto che in ogni caso il destino è immutabile e già fissato al momento della nascita.
Con grande perizia poetica Orazio si avvale qui dell’immagine del mare Tirreno che, antropomorfizzato, si va a schiantare contro le scogliere durante le tempeste invernali. Il poeta ci introduce, così, al torpore dell’inverno che simbolicamente rappresenta la conclusione della vita.
Ecco, allora, il consiglio di una persona che ha già sperimentato e compreso la fugacità del tempo: «sii saggia» («sapias») e «filtra il vino» («vina liques»). Al tempo di Orazio i Romani filtravano le impurità del vino facendolo passare attraverso un sacchetto di tela o un vaso metallico forato e pieno di neve. Il verbo «sapio» indica sia «aver sapore» che «essere saggio». Bellissima è la duplicità semantica del verbo «sapere». La concretezza del lessico latino continua nel verbo seguente «resecare» che significa «tagliare i rami troppo lunghi».
L’interlocutore di Orazio, immaginario o reale che sia, è invitato a non riporre la speranza della propria felicità nel futuro lontano. Non sappiamo quanto vivremo.
Il verbo «carpo» esprime la lacerazione e lo strappo di una parte dal tutto, ad esempio la separazione di una foglia dal ramo o il piluccare un grappolo d’uva. La foglia da staccare, da cogliere è il «dies» che deve essere disgiunto dal tempo nel suo insieme («aetas»). In altre parole, «carpe diem» significa vivi con intensità il presente, ogni attimo, cercando la felicità nell’hic et nunc, qui e ora.
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